Quando parliamo di malattie vascolari?

Mercoledì 29 Gennaio 2025

Le malattie vascolari, come le vasculopatie aterosclerotiche e la malattia venosa cronica, sono condizioni diffuse ma spesso sottovalutate, che possono compromettere seriamente la qualità di vita e aumentare il rischio cardiovascolare, soprattutto nei pazienti diabetici. La prevenzione e il trattamento richiedono diagnosi tempestive, stili di vita sani e terapie mirate.

Ne abbiamo parlato con la Dott.ssa Adriana Visonà, medico angiologo, e con il Dott. Loris Confortin, medico diabetologo, che collaborano con il Centro Diagnostico Castellano.

Di che cosa si occupa l’angiologo?

Dott.ssa Visonà: L’angiologo si occupa delle malattie che interessano il sistema circolatorio, ovvero l’insieme dei vasi sanguigni in cui il sangue circola grazie alla spinta del cuore. Esistono due tipi di vasi sanguigni: le arterie, che portano il sangue dal cuore ai tessuti, e le vene, che riportano il sangue dai tessuti al cuore.

Le malattie vascolari colpiscono questi vasi, quindi possiamo dire che ci sono malattie arteriose e malattie venose.

Che cosa significa avere una malattia arteriosa? 

Dott.ssa Visonà: Significa avere un restringimento o un’occlusione completa di un’arteria causate dall’aterosclerosi, una malattia che colpisce le arterie in diversi distretti. Le arterie del cuore, se occluse, possono portare all’infarto miocardico; le arterie carotidi, che portano il sangue al cervello, se colpite, possono causare l’ictus cerebrale. Esistono anche ostruzioni delle arterie che irrorano le gambe, che provocano la cosiddetta arteriopatia obliterante degli arti inferiori, in gergo PAD.

Quest’ultima provoca dolore ai muscoli delle gambe, che si manifesta tipicamente durante la camminata, quando i muscoli soffrono per il ridotto apporto di sangue. Nei casi gravi, il dolore può presentarsi anche a riposo, soprattutto quando il paziente è sdraiato a letto. In queste situazioni, per alleviare il dolore, il paziente tende a tenere le gambe penzoloni fuori dal letto.

Se la situazione peggiora ulteriormente e più arterie si occludono, si possono sviluppare ulcere e gangrene ai piedi. Le malattie arteriose sono molto diffuse e contribuiscono in modo significativo all’aumento della mortalità e della morbilità nella popolazione generale.

Quali sono i fattori di rischio principali delle malattie arteriose aterosclerotiche?

Dott.ssa Visonà: I principali fattori di rischio delle malattie aterosclerotiche includono l’ipertensione arteriosa, il fumo, i livelli elevati di colesterolo e il diabete. A questi si aggiungono fattori genetici e altre condizioni, come l’insufficienza renale. Anche gli stili di vita giocano un ruolo significativo: la sedentarietà e l’obesità contribuiscono infatti allo sviluppo della malattia.

Ci sono anche malattie legate alla dilatazione delle arterie?

Dott.ssa Visonà: Le malattie legate alla dilatazione delle arterie sono i cosiddetti aneurismi. A seconda della loro localizzazione, gli aneurismi possono rompersi o chiudersi. Una patologia frequente, soprattutto negli uomini fumatori, è l’aneurisma dell’aorta addominale, che può essere potenzialmente letale. Quando si rompe, infatti, presenta un altissimo rischio di mortalità se non si interviene tempestivamente.

Le malattie arteriose periferiche sono spesso associate? 

Dott.ssa Visonà: L’aterosclerosi è una malattia polivascolare, che coinvolge molto frequentemente più distretti del corpo. Oltre al cuore, al cervello e alle gambe, che abbiamo già menzionato, può interessare anche gli arti superiori, gli organi addominali e i reni.

Quali sono le indagini da eseguire nel caso di un sospetto di malattia vascolare arteriosa?

Dott.ssa Visonà: La prima cosa da fare è interrogare il paziente e visitarlo. Ad esempio, bisogna chiedere se ha una familiarità per malattie vascolari, quali fattori di rischio presenta e se avverte dolore alle gambe durante la camminata. Se il paziente riferisce un dolore che insorge dopo una determinata distanza di marcia e si risolve con il riposo, è probabile che abbia l’arteriopatia periferica, soprattutto se presenta fattori di rischio cardiovascolari. Successivamente, si misura la pressione arteriosa alle caviglie e alle braccia e si calcola il rapporto tra queste due pressioni, chiamato indice caviglia-braccio (detto in gergo ABI). L’ABI permette di svelare se le arterie delle gambe sono ostruite e di valutare la gravità della malattia. Inoltre, un ABI anomalo indica un rischio aumentato di eventi cardiovascolari fatali, come l’infarto miocardico.

Un altro esame importante è l’ecodoppler dei tronchi sovraortici, che permette di esplorare le arterie carotidi, che portano il sangue al cervello. Queste arterie sono spesso precocemente interessate dalle placche aterosclerotiche

Perché sono importanti i fattori di rischio e lo stato generale del paziente con alterazione della glicemia?

Dott. Confortin: Come avete visto, i fattori di rischio elencati dalla Dott.ssa Visonà sono importanti per tutta la popolazione. Tuttavia, nel diabetico assumono un ruolo ancora più rilevante perché, a parità di livelli, sono in grado di determinare danni d’organo e, quindi, patologie cliniche con una prevalenza molto maggiore e in maniera più anticipata.

Questo è evidente anche in situazioni che riguardano alterazioni della glicemia non ancora riconducibili ad un diabete conclamato. Si tratta soprattutto della popolazione borderline, cioè di coloro che non hanno livelli di glicemia o di emoglobina glicata così elevati da indicare un diabete manifesto, ma che mostrano valori comunque alterati (stato disglicemico pre-diabetico). 

Questi valori, pur non causando ancora danni significativi, secondari alla glicemia, rappresentano un campanello d’allarme precoce per la valutazione globale del rischio cardio-vascolare e ci permettono di intervenire in modo mirato per trattare gli altri fattori di rischio cardiovascolari, come l’ipertensione arteriosa e l’ipercolesterolemia.

 Si tratta di un approccio molto utile perché, in passato, anche noi diabetologi tendevamo a sottostimare questa fascia di popolazione. Fino a una ventina d’anni fa, infatti, questi pazienti, non essendo ancora diabetici, non ricevevano particolare attenzione. Oggi, invece, queste alterazioni glicemiche ci servono come segnale d’allarme per intervenire precocemente e trattare con efficacia gli altri fattori di rischio.

Perché è importante definire e diagnosticare la presenza di danno d’organo, e in particolare la presenza di macroangiopatia, già all’inizio della malattia diabetica? 

Dott. Confortin: Questo si collega a quanto dicevo prima: mentre per quanto riguarda il danno microvascolare – in particolare retinopatia e nefropatia – sono necessari alcuni anni di iperglicemia prima che queste complicanze si manifestino, e generalmente sono assenti al momento della diagnosi, nel diabetico di tipo 2, la macroangiopatia è già frequentemente presente e spesso precede il momento della diagnosi. La percentuale varia a seconda degli studi, ma resta comunque significativa. Basti pensare che già nel 1998, uno studio molto famoso di Haffner dimostrava che un paziente diabetico aveva la stessa probabilità di incorrere in un infarto miocardico (fatale o non fatale) di un paziente non diabetico che aveva già avuto un infarto. Questo evidenzia una chiara propensione alla malattia cardiovascolare, che studi successivi hanno quantificato come circa doppia rispetto alla popolazione non diabetica.

I dati epidemiologici lo confermano chiaramente: la malattia cardiovascolare rappresenta la principale causa di morte nei pazienti con diabete di tipo 2. Infatti, circa il 65% dei diabetici di tipo 2 muore a causa di una cardiopatia ischemica o di un ictus (stroke).

Perché è importante personalizzare il target da raggiungere?

Dott. Confortin: È estremamente importante sottolineare come sia cambiata, negli ultimi anni, la gestione dell’intervento diabetologico. Per dare continuità a quanto già detto, è fondamentale ricordare che l’iperglicemia non è solo un fattore di rischio di per sé, ma modifica strutturalmente altre componenti del sistema metabolico. Ad esempio, altera le lipoproteine LDL, rendendole più piccole e dense, quindi più aterogene e pericolose.

In passato, fino a una ventina d’anni fa, il ruolo del diabetologo era focalizzato principalmente sul miglior controllo glicemico. Oggi, questo non è più sufficiente. Abbiamo a disposizione farmaci innovativi e ambiziosi che non solo ci permettono di controllare adeguatamente la malattia diabetica, ma aiutano anche a garantire la protezione cardio-renale e vascolare, nonché trattare con successo tutti i principali fattori di rischio.

La scelta degli obiettivi terapeutici, per quanto riguarda il controllo glicemico, dipende dalla condizione generale del paziente. Nei pazienti più giovani, con pochi fattori di rischio e senza complicanze d’organo, dobbiamo essere più ambiziosi, come target terapeutico.  Al contrario, nei pazienti più anziani, più complessi o che assumono farmaci come l’insulina, che possono comportare effetti collaterali importanti come l’ipoglicemia, dobbiamo essere più cauti e stabilire target meno stringenti.

Un aspetto fondamentale, spesso condiviso con la Dott.ssa Visonà, riguarda la gestione del colesterolo LDL. Nei pazienti diabetici, livelli considerati “normali” o “abituali” nella popolazione generale sono comunque a rischio. Le attuali linee guida delle principali società scientifiche, italiane, europee e mondiali, forniscono indicazioni precise. Ad esempio:

  • Un colesterolo LDL inferiore a 100 mg/dL è accettabile solo nei diabetici all’esordio, con meno di 50 anni, meno di 10 anni di malattia o nei giovani con diabete di tipo 1 sotto i 35 anni, senza danno d’organo. Questi pazienti rientrano nella categoria a rischio cardiovascolare moderato (1-5%).
  • La maggior parte dei pazienti diabetici, tuttavia, rientra già in una categoria a rischio alto, sia perché hanno più di 10 anni di malattia, sia perché presentano altri fattori di rischio, anche in assenza di danno d’organo, o placche iniziali nei tronchi sovraortici.

In queste situazioni, l’obiettivo diventa un colesterolo LDL inferiore a 70 mg/dL. Se il rischio è molto alto, ad esempio in presenza di una manifestazione clinica (come una cardiopatia ischemica, un infarto o un diabete con retinopatia o nefropatia), il target scende ulteriormente a 55 mg/dL.

Nei casi più gravi, come nei pazienti che hanno avuto un secondo evento cardiovascolare entro due anni dal primo, il colesterolo LDL deve essere portato addirittura sotto i 40 mg/dL. Questo approccio, noto come “The Lower, the Better”, riflette l’importanza di raggiungere livelli estremamente bassi di colesterolo LDL per ridurre il rischio di ulteriori eventi cardiovascolari.

Fortunatamente, grazie ai farmaci attuali, che fino a pochi anni fa non erano disponibili, possiamo oggi raggiungere questi target ambiziosi con maggiore efficacia e sicurezza.

Quali sono le principali malattie venose? 

Dott.ssa Visonà: Sul versante delle malattie venose, la più frequente e pericolosa è indubbiamente la trombosi venosa profonda degli arti inferiori, che può complicarsi con un’embolia polmonare. Questo accade quando il trombo finisce nella circolazione polmonare, creando problemi di sovraccarico al cuore.

I fattori di rischio più comuni includono:

  • immobilizzazione prolungata
  • neoplasie
  • interventi chirurgici, soprattutto quelli ortopedici maggiori (ad esempio all’anca o al ginocchio) e la chirurgia addominale oncologica

Tuttavia, in molti casi le trombosi sono non provocate, ovvero si manifestano senza una causa apparente. La presa in carico da parte di uno specialista angiologo è fondamentale per garantire la migliore gestione del paziente, valutando tutti gli aspetti clinici.

I sintomi tipici della trombosi venosa profonda degli arti inferiori includono la gamba gonfia, arrossamento e dolore.

La diagnosi di trombosi venosa profonda richiede un esame ecocolordoppler venoso. Se viene confermata la presenza della trombosi, si inizia una terapia con farmaci anticoagulanti, che riducono la capacità del sangue di coagulare.

Un’altra forma di trombosi, apparentemente più benigna perché coinvolge i vasi superficiali (spesso varicosi), è la trombosi venosa superficiale, impropriamente chiamata flebite. Si manifesta con un cordone rosso, duro e dolente sulla pelle delle gambe.

Anche in questo caso, l’ecocolordoppler è essenziale per confermare la diagnosi, valutarne l’estensione e iniziare una terapia appropriata, che risulta differente rispetto a quella per la trombosi venosa profonda.

Le malattie delle vene comprendono anche le vene varicose?

Dott.ssa Visonà: Le vene varicose, comunemente conosciute come varici, sono caratterizzate da una dilatazione permanente delle vene, che appaiono spesso visibilmente tortuose. Questa condizione è una manifestazione tipica della malattia venosa cronica, un insieme di disturbi legati alla cattiva circolazione venosa, di cui le varici rappresentano l’aspetto più comune. La malattia venosa cronica, o insufficienza venosa cronica negli stadi più avanzati, è caratterizzata da infiammazione delle pareti venose e dal ristagno di sangue negli arti inferiori.

I principali fattori di rischio includono l’età avanzata, la familiarità, il sesso femminile, le gravidanze multiple, l’obesità, l’assunzione della pillola anticoncezionale, l’ortostatismo prolungato (come accade in lavori che richiedono di stare a lungo in piedi) e il fumo.
I sintomi della malattia venosa cronica sono estremamente variabili e possono influire negativamente sulla qualità di vita del paziente. Tra questi vi sono un senso di pesantezza e dolore alle gambe, che si intensifica stando in piedi o seduti per lunghi periodi, stanchezza e prurito. Questi sintomi tendono a peggiorare in estate a causa del caldo.

Alla base della patologia vi è un malfunzionamento delle valvole venose: il sangue, invece di fluire verso il cuore, refluisce verso il basso, provocando uno sfiancamento delle pareti venose. Questo processo, accompagnato da infiammazione, crea un circolo vizioso in cui reflusso e infiammazione si influenzano a vicenda, aggravando il quadro clinico.

Con il progredire della malattia, si sviluppano sintomi più severi come gonfiore e alterazioni della pelle. La pelle può diventare più sottile o, al contrario, più spessa, perché si instaurano processi di fibrosi. Nei casi più gravi, si arriva alla comparsa di ulcere, che rappresentano la complicanza più temibile della malattia e la principale causa della scarsa qualità di vita di questi pazienti. Questo è il quadro più severo dell’insufficienza venosa cronica.

Cosa possiamo fare per contrastare questa malattia? 

Dott.ssa Visonà: Si consiglia l’utilizzo delle calze elastiche a compressione graduata, per esercitare una pressione maggiore nella parte inferiore della gamba, diminuendo gradualmente verso l’alto. Questo aiuta a ridurre il reflusso e a facilitare la risalita del sangue verso il cuore. Le calze vanno indossate con l’arto sollevato, portate durante il giorno, dal mattino alla sera, e rimosse quando ci si riposa o si va a letto.

In aggiunta, è possibile seguire cicli di trattamento con farmaci detti flebotonici, prodotti che hanno un’azione prevalentemente antinfiammatoria sulla parete delle vene. L’attività fisica è altrettanto fondamentale: camminare, andare in bicicletta o nuotare contribuiscono ad attivare la pompa muscolare, che aiuta a spingere il sangue verso l’alto. Nei casi più avanzati, è necessario considerare la terapia più adeguata con il supporto di un chirurgo vascolare.

Anche gli stili di vita giocano un ruolo chiave. Adottare un’alimentazione corretta e ridurre il peso corporeo, soprattutto in presenza di obesità, sono misure essenziali per il controllo della patologia.

La malattia venosa cronica, inoltre, non è solo una patologia venosa: recenti studi scientifici suggeriscono che rappresenta una condizione associata a un aumentato rischio cardiovascolare in senso più ampio.

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